LE CASE DEI FRANCESI
Un piano per il rimpatrio dei connazionali fu messo in atto dal governo fascista sul finire del 1938. Il piano prevedeva rimpatri volontari organizzati con l’assegnazione di case ed era principalmente rivolto agli italiani in Francia.
Le case per i rimpatriati venivano costruite in quartieri dallo IFACP (Istituto Fascista Autonomo Case Popolari), come le due borgate del Trullo e del Tufello a Roma. A Brescia tale sobborgo fu quello delle cosiddette “case dei Francesi”, fabbricato alla fine degli anni ‘30 lungo Via Chiusure. Fu il primo centro “contemporaneo” del quartiere Chiusure.
Queste case dove abitiamo noi sono chiamate
“le villette dei francesi”, che non c’è da confonderle con le altre case. Quello è un gruppo di altre case, 16 case. Le villette dei francesi.
Il Duce aveva chiamato gli italiani in patria e aveva detto: “Chi vuol venire…”
Non era un obbligo, però i genitori essendo italiani, abbiam detto: meglio che si torni a casa.
Prima eravamo in Alsazia-Lorena, quella zona lì. Così siam venuti in Italia e lui ci ha dato la casa.
Io vengo dalla Corsica. È scoppiata la guerra e siamo dovuti scappare. Mio papà aveva la sartoria, ha dovuto piantare là tutto. In una notte abbiam perso tutto. Siamo arrivati a Genova, dopo siamo finiti qua. Il Duce aveva fatto quelle case lì per noi.
Un posto di poveretti, un villaggio di poveretti. Non c’era asfalto, non c’era niente. Tutta terra battuta. In Via Chiusure non c’era niente.
Dal ‘40-’44, era venuto uno zio, era di Capriolo, qui c’erano bombardamenti a non finire, allora era venuto lo zio e mi aveva portato a Capriolo. E son tornata qua finita la guerra. E qui paura, fame, freddo. C’era di tutto e di più.
Ho fatto la quinta elementare a Capriolo, su dalle suore orsoline.
Poi, tornata qui, dopo la guerra eravamo a sotto zero. C’era la miseria, miseria nera, proprio.
Non c’era niente da mangiare. Pensate che andavo con la mamma, a mezzogiorno, su alla Caserma Papa col pentolino a prender da mangiare. Si andava su là a prender la minestra, a mezzogiorno.
32 famiglie.
All’inizio eravamo tutti arrivati dalla Francia.
Noi ci conoscevamo tutti. Eravamo vicini di casa là, poi partiti insieme, perché eravamo un gruppo di famiglie là, tutti italiani, friulani, perché la mamma era friulana. Allora, partiti insieme, c’era anche il mio padrino, sempre friulano, ma era andato a Milano.
Eravamo due famiglie, partiti insieme, poi anche qui eravamo vicini di casa. C’era molta amicizia.
“Vualter franceson sif vinit
a’ Italia a mangia’ el noster pa’!”
Eravamo tutti figli di italiani. Qui alla Baia del Re c’era un covo. Razzismo, bullismo… Nel ‘40-’41.
Siamo stati in albergo, mia mamma diceva “Un mese”. Siamo entrati nelle case. Mia sorella era più grande di me, aveva fatto già scuola in Francia, ma tornati qua era ripartita dalla prima elementare, giustamente, per la lingua. Si andava a scuola a Urago Mella e lì c’era razzismo, c’era di tutto.
Ci picchiavano anche, alla ricreazione.
Ci venivano sotto il naso, loro avevano il pane bianco. Il pane bianco te lo sognavi. “Ada che cosa mange me!” Mio papà, siccome era stato ferito nella Grande Guerra a un piede, era andato a Roma appunto per questa ferita qui. E già che c’era, era andato a farsi ricevere dal Duce e si era lamentato perché noi bambini insomma eravamo molto maltrattati.
E da allora c’era un milite, sulla Via Chiusure, tutte le mattine. Ci radunava, ci accompagnava a scuola. Là ci veniva a prendere all’uscita e ci riportava a casa.
Da allora siamo stati rispettati.
Vista dall’alto delle “Case dei Francesi” appena concluse Archivio Fotografico Civici Musei di Brescia